Cauterizzare le ferite, vivere per il solo senso che ha
Omnia sunt communia Opinioni
William Domenichini  

Vivere per il solo senso che ha

L’auto procede in una notte gelida, su una strada di provincia: “Cauterizzare le ferite, vivere per il solo senso che ha“. Il cd era entrato da poco nell’autoradio, quando le autoradio ingoiavano ancora i cd. Il momento ridanciano, seguì la proposta musicale con irriverenza e superficialità. Ma la prima traccia era partita. Le curve della strada si susseguivano, silenziosamente, mentre solo una voce le accompagnava. “Vivere per immaginare, per percepire il solo senso che ha“. Gli accordi del piano si intrecciavano con la chitarra, seguendo il ritmo dettato dal basso e dalla batteria. I fari, nella notte, erano seguiti da suoni e parole, che fiorivano, nonostante il gelido inverno. “Ma io lascio che le cose passino e mi sfiorino, perché non sono in grado di comprenderle“.

Nessuno parlava. Quasi si respirava piano per poter ascoltare tutto. Tutto buio, eccetto il fascio degli abbaglianti e quella musica, il cui ritmo aumentava costantemente, come se non volesse fermarsi mai. “Essere deboli in un mare verticale, sentire quanto i rischi possano aumentare“. Quella voce, quelle parole, quelle note, continuavano a risuonare. Le vibrazioni entrano dentro, sciogliendo il freddo, scaldando la solitudine di quell’auto, abbracciandosi. “Odiare per sentirsi vivi, per percepire il solo senso che ha. Improvvisamente ritornare primitivi, essere comici e tornare primitivi. E bere il sangue del nemico solo per gustarne la diversità“. Via su un lungo viale. Una fila infinita di pini da una parte, un’antico acquedotto dall’altra. Le note scemavano, ma ardevano dentro, mentre gli occhi, emozionati, imploravano che non finisse mai. “Io lascio che le cose passino e mi sfiorino, perché non sono ancora in grado di comprenderle, senza toccarsi1“.

Poi Cerchi nell’acqua, Io e te, Il sentimento delle cose, Fiamme, Suggestionabili e un tuffo in quel passato Scisma che ignoravo, ma che presto avrei colmato. Brucio, È solo un sogno, Only for You, Catherine e Quando passa lei, che aveva il repeat fisso. Ai piccoli fragilissimi film sarebbe stato semplicistico pensare che la prima fiammata è concessa a tutti. Ma i veri poeti, non lasciano un solo segno, marcano indelebilmente tutta la loro esistenza.

Le labbra, Hermann, Earth Hotel, H3+, Dell’odio dell’innocenza, Delle inutili premonizioni 1 e 2, È inutile parlare d’amore. Se il primo lavoro appare monumentale, quel che segue è un costante crescendo di evoluzioni, contornate da contributi come Io e il mio amore ne Il paese è reale o Breve storia di Francesco C in Materiali resistenti. Fino ad arrivare al meraviglioso Piccoli fragilissimi film – Reloaded, con collaborazioni pregevoli e perle, come la bonus track, Isola ariosto, con Max Collini. Paolo Benvegnù entra talmente nelle corde dell’anima. Nelle mie ha solcato che spesso, scrivendo, lo citavo, perché toccava quel profondo che avrei voluto toccare io stesso.

Il giorno che salii per i tornanti che conducono a Carnea, immancabilmente, girava Hermann e le sue tracce memorabili. Arrivai in quel borgo sperduto, intervistai Mario, uno dei suoi abitanti che si prende cura dell’acquedotto di comunità, roba bolscevica, l’acqua come bene comune. Dopo alcune ore terminammo l’intervista e, riscendendo la strada, nella poesia dei racconti che raccolsi e nella magia delle note che ascoltavo, un bambino, impertinente, si scapicollava tra i vigneti, gli oliveti ed i terrazzamenti coltivati poco sotto a Carnea. Pensai, mentre il mondo della finanza ci fa agonizzare sull’orlo del default senza ucciderci, quel bambino sembra gridare: “io sono molto più veloce e non mi prenderete mai, perché sono legato alla terra e alla terra mai mi slegherei2”.

I dettagli rivelano la gentilezza di un animo. Molti anni fa, un concerto al Cage di Livorno. Non il “theater“, ma il vecchio Cage, incastonato tra i fumi della raffineria e del porto, il canale scolmatore ed aree militari. Il concerto inizia, la sala è piena. Tutti in piedi, al bordo del palco. Ma fin dai primi pezzi c’è qualcosa che non va. Paolo Benvegnù è quasi afono. C’è chi non avrebbe nemmeno iniziato. Lui invece si scusa, ma non molla, rendendo omaggio a chi, quella sera, decise di ascoltarlo.

Così se ne esce fuori con un due ore unplugged, solo la sua chitarra e la sua voce. Fin quando, alla fine del concerto, concesse anche il bis ed il pubblico si sostituì alla sua voce, cantando i suoi pezzi. Gratitudine pura e reciproca. Fuori, anche la maleodorante raffineria, le aree militari, le zanzare dello scolmatore ed i rumori del porto, sembravano spariti. Ci furono altre occasioni in cui rividi suoi concerti, ma quella fu unica. “E poi scende la sera, che accende mille fuochi. E tracce di pulviscolo lunare le circondano i capelli, quando passa lei3“.

Qualcuno penserà che fosse un’unica rarità, ma così non è. Nei ricordi che emergono, decine, centinaia, sono gli aneddoti di situazioni improvvisate, di emozioni donate, di serate indimenticabili. Memorie di serate indimenticabili che l’hanno fatto amare, perché la sua musica, non ha mai mentito, non ha mai attraversato una moda o una tendenza, ma è sempre stata genuinamente la fusione della sua arte, della sua cultura, della sua sensibilità.

Poi ci sono quelle parole che forse andranno presto nell’oblio, in cui emerge l’insopportabile necessità di dare un’etichetta, anche a chi, come Paolo Benvegnù, un’etichetta era impossibile dare. Forse qualche maldestro tentativo di scusarsi, con irreprensibile ritardo, del fatto che il grande circo lo abbia snobbato. Più semplicemente, lui, un uomo libero, ha snobbato quel circo, lontano dalla sua arte ed alle emozioni vive che ne è stata capace di generare. Qualcuno potrebbe pensare che fosse il tentativo eclettico di costruirsi una torre da cui giudicare altre scelte. Assai probabilmente è riuscito, così, a costruire uno scrigno in cui poter gioire e, liberamente, contribuire a far crescere un senso critico. “Anime avanzate, voltate le spalle al puro mondo. L’errore rende liberi, soltanto se libera è la grazia, di camminare verso le saline e a piedi nudi non sentire il male e guardare l’orizzonte4“.

La sua scomparsa ha fatto esplodere un vuoto istantaneo, frammisto ad incredulità, amarezza, sconcerto. Il rammarico di non aver visto un’ultima volta dal vivo, di non aver avuto l’occasione di incontrarlo. Ma nell’istante successivo una valanga di ricordi, frammenti di vita accompagnati dai suoi versi e dalle sue note, serate indimenticabili ai suoi concerti. La consapevolezza, forte, anzi granitica, che, seppur non sia più tra noi, resterà per sempre nelle nostre emozioni, la sua luce, la sua genuinità, la sua cristallina voglia di rompere schemi e luoghi comuni a cui ci si abitua, troppo facilmente ed altrettanto pericolosamente.

Il vero cantautore è un ricercatore di cose non utili, nel senso che oggi tutto deve essere teso all’utile e perciò noi brancoliamo nell’inutile. Ma chi dice cosa è veramente utile? Ad esempio io trovo utilissimo vedere i bambini correre nei prati. Non portano denaro, ma portano gioia.

Paolo Benvegnù
(30 dicembre 2024)

Immensamente grazie, quindi, ad un grande musicista, ad un grande poeta, ad un uomo libero. Paolo Benvegnù. Cercando di restare “fedeli” ad un primordiale verso: “nel mio essere come esplodere di noia, ringrazio dio che mi ha fatto troppo poco intelligente5“.


Foto di copertina tratta da https://www.flickr.com/ realizzata da Isa (Osnago, 8 settembre 2007) e pubblicata in CC BY-NC-ND 2.0.

1. “Il mare verticale”, Paolo Benvegnù – Piccoli Fragilissimi film (2004)

2. “Achab in New York”, Paolo Benvegnù – Hermann (2011)

3. “Quando passa lei”, Paolo Benvegnù – Piccoli Fragilissimi film (2004)

4. “Avanzate, ascoltate”, Paolo Benvegnù – Hermann (2011)

5. “Troppo poco intelligente”, Scisma – Armstrong (1999)

0 0 voti
Rating articolo
Sottoscrivi
Notificami
Lascia un tuo commento
Lascia un tuo commento

0 Commenti
Il più vecchio
Più recente Più votato
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti
3d book display image of Il golfo ai poeti

L'ultimo arrivato!

Questo bellissimo saggio ci racconta come la cultura di guerra e di morte genera gli stessi mostri in tutto il Paese: pessimismo, obbedienza, passività, senso di sconfitta, conformismo, opportunismo, clientelismo. Figli di un dio minore, vittime e colpevoli allo stesso tempo dei propri mali. Politici e rappresentanti istituzionali fotocopia. Iene e sciacalli ai banchetti delle opere pubbliche e gattopardi perché cambi tutto purché non cambi nulla.

Lo scenario che ci delinea e ci offre queste pagine che seguiranno è certamente doloroso, tragico, inquietante, ma in questo suo coraggioso e generoso atto di denuncia traspare sempre lo smisurato amore per La Spezia, per il suo Golfo, il suo Mare. Pagine e immagini che feriscono il cuore ma in cui respiriamo ancora speranza ed utopia. Che un’altra città sia davvero ancora possibile, viva, libera, aperta, felice. Un laboratorio di Pace.

Antonio Mazzeo

ORDINALO!
0
Mi piacerebbe conoscere il tuo pensiero. Lascia un tuo commentox