
Volta la carta e c’è un patriota
C’è una politico che fa l’idiota, volta la carta e c’è un patriota? Secondo le concrete e risolutive spinte legislative del consigliere regionale ligure, Gianmarco Medusei, noto per non brillare particolarmente nell’attività amministrativa, ma per eccellere nelle iniziative a sfondi discutibili, oppure per essere invischiato in faccende ancora tutte da chiarire, evidentemente basta. Nel caso specifico la proposta che svolterà la vita dei liguri è intitolare una via a Fabrizio Quattrocchi, il contractor ucciso in Iraq nel 2004, quando l’Italia aveva la sua base per scopi di esportazione della democrazia.
Ora che un consigliere regionale trovi tempo per impegnarsi in una battaglia politica sulla toponomastica desta qualche perplessità. Non sarebbe nemmeno un’idea alquanto originale, visto che Veltroni (ed altri) lo precedette e di molto nell’idea di dedicargli una via. Tuttavia, superato questo imbarazzo, c’è da chiedersi cosa sia celebrativa una figura, defunta, il cui ricordo è fondato su una frase che, almeno per me, è senza senso.
Ora vi faccio vedere come muore un italiano, nell’accezione logica del termine è per me priva di alcun senso. Evidentemente ci sono persone che ne ravvedono una logica. Io no. Non capisco come un italiano possa morire diversamente da un nepalese. Quali differenze lo distingue in quel momento. Il sentimento di patria? Questione che si può declinare con varie sfumature: patriottismo, appartenenza, identità nazionale. Altri ancora, ma tutti, almeno oggi, privi di un reale campo semantico. Patria come lo sventolare di una bandiera su un sito di estrazione di idrocarburi in un lontano golfo africano? Appartenenza ad un popolo che ha raggiunto l’identità nazionale sotto la guida di una delle più scalcinate famiglie nobiliari dell’emisfero boreale?
In fondo, e con tutto il rispetto per la vita (e per la morte), Quattrocchi, alla fine, anche senza che lo dicesse ha mostrato come muore un essere umano. Anzi. Ci sono schiere di esseri umani che non hanno nemmeno il tempo di annunciare la loro morte, ne di maledirla, ne di rivendicarne la nazionalità. Perché un africano, che può essere di tante nazioni, muore annegato nel Mediterrano nel tentativo di fuggire da una guerra e non percependo uno stipendio per farla. Perché un palestinese muore sotto le bombe di chi fa della guerra un genocidio ed una professione, non solo non annunciandolo, ma nell’indifferenza di nazione che, parrebbero annunciare la loro morte con una dignità tale da dedicar via ai loro epigoni.
Non la voglio buttare nel pietismo. Già occorre pietà per chi invece di sistemare un sistema sanitario allo sfascio, un territorio che cade a pezzi, uno stato sociale che sta sempre di più lasciando nel baratro le fasce più deboli, si occupa di toponomastica. Ma volta la carta, esce un vicesindaco. Non un vicesindaco qualunque. Un vicesindaco comune patrimonio dell’umanità. Per strutturare una sorta di ossimoro, nell’alacre attività di social communication, il vicesindaco di Porto Venere apostrofa un’iniziativa, una pastasciuttata antifascista, dicendo “l’olio lo porto io” e l’allusione non è stata caduta nel vuoto. Ora direte voi, si commenta da solo. Ma stiamo parlando di un esponente istituzionale di una Repubblica fondata sul sacrificio di chi di olio di ricino fu costretta a berne assai. Non temete, come insegnò un grande teatrante passato per taluni come statista, non si può che attendere minimizzazioni, a braccio teso.
L’avvicinarsi del 25 aprile dovrebbe infondere quella gioia liberativa che spazzi via tutto questo. In parte è così. Ma c’è un fondo di amarezza che serpeggia, non da oggi, ma fin dai primi minuti dell’Italia liberata. Fin dai primi giorni della repubblica. Non penso al 25 aprile per una sorta di vaso comunicante (o forse si, chi lo sa), ma perché come nella storia di Peter Pan ogni volta che si dice “Io non credo nelle fate” da qualche parte c’è una fata che cade morta. Così ogni volta che si usa il termine Patriota come sopradescritto, un partigiano si rivolta nella tomba.
Parafrasando Luciano Canfora, il nucleo di ogni fascismo è il razzismo, il suprematismo bianco, il pensiero di un popolo (o di una sua classe dirigente) di essere superiori ad altri popoli. Figuriamoci declinare la morte con una bandiera nazionale. Di fronte a beceri tentativi di cura del carrierismo strumentalizzando la morte o, grottescamente, ridicolizzando la violenza. Forse è il caso di riprenderci le parole. In questo senso ci viene in aiuto un comandante partigiano, comunista, che fu, tra le varie cose, il Questore della Liberazione alla Spezia. Il finale di un suo libro, dovrebbe essere scolpito nelle menti di chi, di tanto in tanto, si dice antifascista.
Si pensava che tutto sarebbe cambiato, che saremmo tornati in un paese felice e che l’avevamo meritato. Ci siamo invece accorti di essere importuni e siamo stati scacciati dai nostri stessi compagni che avevano trovato la via giusta, quella del compromesso. Ecco perché dopo 28 anni, affrontiamo il neofascismo con apatia.
Siamo stanchi di riunioni e di raduni che non concludono nulla, siamo stanchi di manifestazioni e di congressi che si esauriscono in parole. I comunisti sinceri comprendono che bisogna lottare per un altro tipo di società, ma anch’essi sono soffocati da un parlamentarismo velleitario, da leggi, decreti, dalla burocrazia politica; considerano con animo triste l’ingiustizia trionfante, e, chi ha fatto la guerra di liberazione rumina l’amarezza che lo prende al ricordo dei morti, delle stragi, degli incendi.
Ma oggi sarebbe festa grande per i difensori dell’ordine a tutti i costi, se i giovani che non hanno fatto la guerra, si abbandonassero a certi loro impulsi più che giustificati e rispondessero al richiamo di una rivoluzione astratta irresponsabile, sollecitata magari dal potere costituito. Una volta si sapeva il significato concreto delle parole: democrazia, socialismo, libertà, laicità, rivoluzione. Oggi… ogni formula nasconde un inganno. Tutto è rimasto come prima, con le stesse tare e la stessa corruzione. Ecco perché credo sia venuta l’ora di riprendere l’opera abbandonata il 25 aprile 1945.
Renato Jacopini,
Comandante partigiano
(4 giugno 1973)
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