Prima darsena (Bersagliere ormeggiato) 16 ottobre 2022
Analisi Local Omnia sunt communia
William Domenichini  

Cambiare e aprire l’arsenale

di Giorgio Pagano
tratto da Città della Spezia (22 Settembre 2024)

Cambiare e aprire l’arsenale. Venerdì scorso ero a Marola, uno dei luoghi cancellati dalla realizzazione dell’Arsenale, che rischia oggi l’ennesimo sacrificio. Ma non è solo Marola a rischiarlo. Lo è tutta la città.

Negli anni Sessanta dell’Ottocento La Spezia cambiò radicalmente volto: dall’area di San Vito, borgo di antichissime origini, fino al Lagora fu costruita una nuova città, quella militare: 180.000 m2 edificati, 12 km di strade e 6,5 km di banchine realizzate, a circondare circa 1.400.000 m2 di acque interne. Nel nome dell’industrializzazione – accettata perché portatrice di lavoro e di progresso – si perse l’unità del golfo, l’ammirevole armonia tra la natura e il costruito che aveva incantato per secoli i viaggiatori.

È un passato che non può tornare: le manomissioni sono irreversibili. Quando ero Sindaco pensai di ripristinare il percorso originario del Lagora, per poter recuperare spazi alla città. Ma era probabilmente un’idea sbagliata: perché non dobbiamo procedere a una nuova cancellazione ma piuttosto perseguire una coesistenza conciliante, cioè la massima integrazione possibile, tra l’Arsenale e la città. Guardato dall’alto, quel manufatto artificiale che ha distrutto la natura e la storia appare perfino bello. Le sue porte appartengono al luogo urbano, a Marola come in piazza Chiodo: la città deve “entrare” in queste porte. Sembra quasi naturale farlo: via Chiodo, per esempio, prosegue in Arsenale. Le strade dell’Arsenale hanno lo stesso carattere delle strade della città che è venuta dopo di esso.

L’Arsenale è un luogo con una identità: non bisogna “ucciderlo”, ma bonificarlo, diversificare e riconvertire le attività ormai obsolete che ospita, costruire dentro di esso spazi pubblici, aprirlo… Cambiare e aprire al resto della città un luogo che è giusto rimanga per sempre l’Arsenale.

Il tema è ineludibile: quando si passa da 12 mila lavoratori a poche centinaia cambiare e aprire l’Arsenale diventa un obbligo.

Prima dei singoli progetti, serve la “visione”, che è la condizione essenziale: un “piano strategico” dell’Arsenale e dell’intera base navale spezzina, concordato tra Comune, Regione, Marina e Governo, che coinvolga i cittadini e gli attori sociali. Marina e Governo per ora non ci sentono? Spetta a Comune e Regione – intanto – proporlo.

E invece che accade?

Spunta un programma che si chiama Basi Blu. Un nome accattivante per adeguare l’Arsenale alle predisposizioni previste dalla Nato. Sono previsti tre nuovi moli, l’ampliamento di un molo esistente e di una banchina esistente: oltre 40.000 m2 strappati al mare. A terra è prevista la riattivazione dei serbatoi di carburante oggi dismessi, che sono sotto la Napoleonica, l’unica via di collegamento nella costa di ponente, e sotto l’abitato di Marola.

Ancora: sono previste imponenti opere a mare per dragare il fondale di transito della Darsena Duca degli Abruzzi sino a 12 metri, con una previsione di fanghi asportati di 600.000 m3, con una forte componente di materiale inquinato. Il rischio ambientale è forte, tanto più se consideriamo che poco oltre, nella SNAM di Panigaglia che verrà ampliata, è prevista un’altra maxi operazione di dragaggio: la rimozione di 2 milioni di m3 di sedimenti, anch’essi in buona parte contaminati, per portare i fondali da 10 a 14 metri di profondità.

Il programma Basi Blu avrà un costo enorme per le casse dello Stato – sono stati stanziati 1,7 miliardi di euro – senza benefici dal punto di vista dei posti di lavoro. Il programma è finalizzato infatti solo a garantire infrastrutture e servizi di natura logistica e portuale alle unità militari, senza incrementi significativi del numero degli addetti, sia militari che civili. La sua realizzazione sarà una pietra tombale sulla coesistenza conciliante, sull’integrazione dell’Arsenale con la città, sulla “visione” e sul “piano strategico”.

Ma non c’è solo Basi Blu. L’agonia di una delle più importanti realtà occupazionali della storia della città e del Paese è accompagnata da concrete proposte di cessione di suoi spazi a privati, senza nessuna ricaduta per la collettività. Se non sarà mantenuto il governo pubblico delle aree attualmente in uso alla Marina, trionferà un modello speculativo, nella logica degli appalti e subappalti selvaggi e del lavoro schiavo, che caratterizza oggi la cantieristica e la nautica. A Marola e in tutta la città tanti cittadini stanno firmando la petizione lanciata dalla Rete spezzina Pace e Disarmo, che chiede un “dibattito pubblico” in una Spezia che non discute più. Basi Blu non è mai stato discusso. Sul futuro della base navale non c’è mai stato un confronto con la comunità.

Il “dibattito pubblico” è uno strumento di partecipazione, elaborato in Francia, che impegna chi intende realizzare un’opera con un forte impatto sul territorio a confrontarsi pubblicamente, in una fase preliminare di sviluppo del progetto, con gli abitanti che in quello stesso territorio vivono, discutendone le ragioni, le caratteristiche, i costi, gli impatti, le alternative. Il “dibattito pubblico” serve a garantire il diritto dei cittadini a un’informazione corretta, completa, accessibile, il diritto a prendere parte alle decisioni su progetti che li riguardano.

Puntando a questo obiettivo, negli anni il modello del “dibattito pubblico” è andato strutturandosi fino a raggiungere una forma molto codificata: la guida è affidata a un soggetto terzo, una commissione autonoma e indipendente rispetto a tutte le parti, che decide qual è il perimetro dei temi da affrontare, quanti incontri fare con la cittadinanza, quali esperti invitare, quanto dura il dibattito, come comunicare, come intercettare e coinvolgere il pubblico, quali modalità partecipative adottare… Il “dibattito pubblico” ha poi una caratteristica conclusione in due tempi: prima la commissione presenta la relazione finale in cui pone in maniera chiara ed esplicita l’insieme delle questioni emerse durante il processo, poi il soggetto che propone il progetto risponde e spiega se e in che modo ne terrà conto.

Il tema di come cambiare e aprire l’Arsenale ci riporta dunque ad alcune parole chiave della riforma della politica, mai così in crisi come oggi.

La prima è partecipazione. Si governa bene solo con la partecipazione dei cittadini. Senza di essa c’è il governo della “oligarchia dei giri”: la Liguria insegna. Dobbiamo ricostruire la democrazia, mai così decaduta: decidere non in uno yacht ma solo dopo aver consentito ai cittadini di appropriarsi dei temi in discussione e di essere in grado di esprimere il proprio parere con cognizione di causa.

La seconda parola chiave è strategia. Si governa bene solo con la “visione”. Siamo in una città dove sono in vigore il “Piano strategico”, il Piano Urbanistico Comunale, il Piano Regolatore del Porto, l’Agenda 21 di vent’anni fa e oltre. Io sono il Sindaco che ne porta la firma ma sono il primo a dire che sono tutti strumenti da adeguare profondamente.
Abbiamo tanti nodi da sciogliere. Quale sarà il futuro delle aree dell’Enel? Che fine ha fatto il waterfront? L’area ex IP è servita solo per un centro commerciale? Quale deve essere il modello di sviluppo della città? Possiamo scioglierli solo dentro un disegno complessivo. Non a pezzi, in balia del mercato o dei poteri forti.

La terza parola chiave è industria. Dobbiamo stare molto attenti: la monocultura crocieristica e il turismo mordi e fuggi stanno portando alla “città mangiatoia”, alla scomparsa o quasi degli affitti lunghi, alla crisi del centro storico, che ha perso il suo connettivo commerciale e abitativo, la diversificazione delle funzioni, la vitalità degli spazi culturali. Il turismo mordi e fuggi porta a impieghi a basso valore aggiunto, avvantaggia le rendite e porta alla subalternità tecnologica e scientifica.

Discutere dell’Arsenale ci fa capire che abbiamo ancora bisogno di industria e tecnologia. Posti di lavoro qualificati. Cultura, ricerca, Università. Di un’apertura alla città e spazi pubblici. È difficile farcela perché la classe dirigente punta ad altro, non solo a Spezia. In fondo il teorico dell’Italia che ha un futuro solo nel turismo è stato Mario Draghi. Mai votato da nessuno ma ispiratore di una politica che ha trasformato il nostro Paese, ormai ex grande potenza industriale.

La quarta parola chiave è pace. Abbiamo bisogno di una politica industriale, non di un’Europa militarizzata. Oggi è sempre Draghi, il campione della gerontocrazia al potere, che torna a parlare di industria dopo averla abbandonata: ma l’industria di cui parla è solo quella militare.

Alla Spezia l’industria non è solo militare, ma è anche militare. Non possiamo sfuggire a una discussione di fondo. Si discute della difesa comune di un’Europa integrata. Io sono un pacifista: però ne colgo, in una fase di transizione verso il disarmo, la necessità. Ma ogni difesa presuppone la definizione di una politica estera. Una difesa comune senza politica estera europea è di fatto – e inevitabilmente – al servizio della Nato e della potenza politica americana che la guida. Il disegno che emerge è chiaro: una nuova guerra fredda, un confronto bipolare tra Occidente e Russia e Cina, la potenza emergente.

Ma questa configurazione della politica mondiale, oltre a generare il rischio di una guerra catastrofica, è incompatibile con un altro disegno: un’Europa unita e indipendente, sempre rispettosa del diritto internazionale, chiunque lo violi. Dobbiamo evitare che l’Europa commetta il tragico errore di contribuire alla nuova guerra fredda, che è già oggi molto calda. L’Europa sta sbagliando: non deve spingere alla guerra, deve fare da ponte tra l’alleato americano e il mondo emergente. È questo il nostro futuro. Qui c’è il nodo della difesa comune europea, e del ruolo di Spezia in questo disegno.

La costruzione di una difesa europea consona a questa realtà non avrebbe le dimensioni e i costi di una configurazione euro-atlantica, consentendo economie di scala derivanti dall’eliminazione di duplicazioni imposte dalle regole della Nato.

Giangiacomo Migone
(5 aprile 2022)

Stiamo parlando anche di Spezia. E di un Arsenale dove la Nato – con il programma Basi Blu – impone “duplicazioni”. È difficile farcela perché il nodo è anche questo. Dobbiamo contrastare dal basso un modello di democrazia sbagliato, un modello di sviluppo sbagliato, una politica industriale sbagliata, una politica estera sbagliata. Ma almeno battiamoci. Possiamo vincere. O anche perdere: ma in questo caso lasceremo alle nuove generazioni l’esempio di una lotta in cui attingere la scintilla della speranza futura.

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L'ultimo arrivato!

Questo bellissimo saggio ci racconta come la cultura di guerra e di morte genera gli stessi mostri in tutto il Paese: pessimismo, obbedienza, passività, senso di sconfitta, conformismo, opportunismo, clientelismo. Figli di un dio minore, vittime e colpevoli allo stesso tempo dei propri mali. Politici e rappresentanti istituzionali fotocopia. Iene e sciacalli ai banchetti delle opere pubbliche e gattopardi perché cambi tutto purché non cambi nulla.

Lo scenario che ci delinea e ci offre queste pagine che seguiranno è certamente doloroso, tragico, inquietante, ma in questo suo coraggioso e generoso atto di denuncia traspare sempre lo smisurato amore per La Spezia, per il suo Golfo, il suo Mare. Pagine e immagini che feriscono il cuore ma in cui respiriamo ancora speranza ed utopia. Che un’altra città sia davvero ancora possibile, viva, libera, aperta, felice. Un laboratorio di Pace.

Antonio Mazzeo

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