Prima pagina, venti notizie e ventuno ingiustizie
Prima pagina, venti notizie e ventuno ingiustizie. E lo Stato che fa? Si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità. Riascoltando Faber, nonostante mi scervelli, m’asciughi la fronte, non ho la fortuna del suo secondino. Così non trovo risposte in nessun uomo sceltissimo ed immenso, a cui chieder consenso. Confesso, invece, che riflettere su quanto accade costa molta sofferenza. Un’inquietudine che è compagna, ed accompagna, la preoccupazione, per usare un candido eufemismo, sul mondo che ci circonda. Il disagio, nel convivere con il degrado in cui sta precipitando il nostro modello sociale, culturale e che taluni riterrebbero un giardino civile, circondato da una barbara giungla, è proporzionale all’ipocrisia che ci avvolge.
Al di là delle fantasiose ricostruzioni suprematiste, forse, occorrerebbe un po’ più di umiltà (e di umanità), collettiva, nel prendere atto che il nostro modello sociale e culturale, volgendo al tramonto, esprime i peggiori paradigmi possibili. Tra i tanti, per l’appunto, un’oleosa ed impregnante ipocrisia. Ogni volta che accade un fatto lacerante, per esempio, la reazione del sistema non è porre le basi di un cambiamento radicale, che affronti la questione in modo strutturale, ma un po’ di retorica qua e là, quel tanto che perdura l’effetto emotivo. Poi, quando quel galantuomo del tempo assopisce emozioni ed anestetizza le coscienze, tutto può tornare come prima. Anzi. Peggio di prima.
Il femminicidio di Giulia non è un fulmine che squarcia i cieli sopra le nostre coscienze, improvvisamente. Anzi è l’ennesima pietra della vergogna di una società che predilige la giustificazione di soprusi e di violenze, in particolare nei confronti di chi, in uno o mille modi, vive in questa società malata, subendo costantemente ogni forma di abuso e prevaricazione. Individualismo e sopraffazione, l’effetto patriarcale di un insieme di fattori di una brodaglia in cui tutto è vendibile, la dignità e anche la stessa vita umana.
Prendiamo coscienza di tutto ciò, per cercare di provare a dare il nostro piccolo, ma fondamentale contributo. Senza attendere che qualcuno dica che sia la scuola ad accollarsi l’ennesimo fallimento di una società. Perché diciamocelo. Ogni volta che emerge l’olezzo ed il putridume della marcescenza di valori universali ed umani, in via d’estinzione in ragione di modelli commerciali, c’è sempre chi trova soluzioni in tutto, men che nel cambiare il modello. Il paradosso, in un contesto in cui all’istituzione scolastica viene erosa costantemente, in risorse economiche, in strumenti di lavoro, in svilimento delle capacità professionali dei/lle docent*, per formare ed istruire le nuove generazioni, si chiedono impegni e sempre più sforzi per affrontare le crepe del modello in declino.
Beninteso che non ci sono soluzioni semplici a problemi complessi. Anzi, verrebbe da diffidare a piè pari a chi ne propugna, tuttavia, prender coscienza del fatto che questa nostra società, fondata sul profitto senza se e senza ma, va ripensata alle fondamenta sarebbe un primo passo verso un tiepido tentativo di cambiamento. Prendere atto che la giungla è dentro di noi, non fuori dai nostri confini culturali, o fisici, occidentali. Senza attendere il prossimo delitto di una donna, per mano della persona che avrebbe dovuto amarla. O senza additare società ritenute feudali, quando il medioevo culturale sta nella porta accanto. Siamo certi che basti dedicare qualche ora nelle scuole per prendere coscienza che viviamo in una società patriarcale, violenta, ipocrita ed ossessionata dallo scandalo moralista? Siamo certi che basti una giornata contro i femminicidi per contrastare un nauseabondo contesto di moralismo, giustificazionismo e benaltrismo?
Iniziamo a prenderci delle responsabilità. Di fronte a questo melmoso baratro in cui stiamo affondando, ogni forma di giustificazionismo è inammissibile. La lista degli orrori è quasi più impressionante dei femminicidi stessi. Come se la pietra sepolcrale che attende le donne, vittime dei propri carnefici uomini, sia ancora più orribile della violenza e della morte stessa. Giulia Cecchettin è stata assassinata per mano di chi diceva di amarla.
Facciamo un passo indietro. Se ci chiedessimo chi sia Carol Maltesi, quanti di noi saprebbero rispondere? Una donna uccisa, fatta a pezzi dal proprio compagno, nel gennaio 2022. In quell’orrore, al netto del suo oblio, il fango con cui è stata ricoperta è insopportabile. Nella sentenza di condanna del fidanzato si legge che “lei era giovane e disinibita, lui innamorato perdutamente” e che venne massacrata perché “lei si stava trasferendo lontano da lui, scaricandolo“.
Il movente di quell’atrocità quindi sarebbe “la consapevolezza di aver perso la donna amata“. Se il corpo di Carol fu fatto fisicamente a pezzi, dopo la sua morte anche il suo ricordo è dilaniato. Le sue scelte personali, per taluni scandalosamente incondivisibili, la etichettarono, lasciandole uno stigma, come se fossero causa della sua orribile morte. In quell’ipocrisia di cui siamo intrisi, non si supera il giudizio morale sulle scelte personali, dell’intima autodeterminazione del proprio corpo, così si dimentica che Carol fu solo vittima di un femminicidio.
“Se l’è cercata” è divenuta, nel tempo, la perifrasi che cela le fondamenta scricchiolanti dell’edificio patriarcale in cui viviamo. Mentre fuori dal nostro giardino, fertilizzato da pregiudizi e stigmi, incombe la giungla, l’oblio ci fa dimenticare che ogni femminicidio, ogni violenza di genere, non è un episodio, ma ormai la regola. Così come è accaduto in tanti altri casi, innumerevoli, dove il mostro viene dipinto come l’eccezione, per nascondere la norma. Anche in quelli più laceranti, in cui uomini dello Stato sono stati protagonisti, come i carabinieri accusati e condannati per aver violentato due studentesse statunitensi nel settembre 2017, a Firenze, dopo averle riaccompagnate con l’auto di servizio a casa. Anche loro ebbero il loro stuolo di giustificazioni ed anche quella storia andò nel dimenticatoio. Non finiranno nel dimenticatoi quelle violenze compiute da chi ha professa una religione diversa, chi ha una nazionalità diversa e che nella violenza
La morte di Giulia è l’ultima di una lunga lista, nera, orribile, in cui il potere del carnefice e l’ipocrisia di noi spettatori sono gli elementi che legano un filo nero di violenza e di sopraffazione. Tutto scorrerà, in attesa di varcare la soglia del dimenticatoio. Ma per evitare l’oblio, ammazzando due volte una vittima di femminicidio, non abbiamo altra strada che costruire un nuovo paradigma. Prenderci tutt* la nostra responsabilità, consapevoli che quell’orrore è nostra responsabilità, facendocene carico. Mantenere memoria è una condizione necessaria, ma non sufficiente, nella misura in cui la violenza di genere è espressione di un sistema. Un modello che ignora, volutamente.
Un bambin* discriminato, non voltiamo dall’altra parte. Violenze e soprusi di genere, non voltiamo dall’altra parte. Civili bombardati, intere popolazioni condannate al genocidio, non voltiamo dall’altra parte. Emarginat* del mondo, disperat* che annegano alla ricerca di una vita, non voltiamo dall’altra parte. Sfruttat* e stritolat* da un modello economico inumano, non voltiamo dall’altra parte. Tutt* ritenuti colpevoli e non vittime. Noi tutt* siamo colpevoli di non ribellarci in un contesto ed in un sistema in cui ci si volta sistematicamente dall’altra parte. E mentre ignoriamo le vittime, confondendo volutamente chi abusa e chi è abusato, vittima e carnefice, divenendo carnefici noi stessi. Non si può attendere una legge, una giornata o un progetto scolastico dedicato. Occorre un cambio di paradigma, che parta da noi stessi. Qualcuno direbbe, una rivoluzione.
Per cambiare, parafrasando, dobbiamo ricordarci, ogni giorno, che
è nell’indifferenza che un uomo ed una donna, un uomo ed una donna ver*, muoiono davvero.