SeaFuture: affari, guerra e sostenibilità
Affari guerra sostenibilità, un mix difficilmente ottenibile se non in un modo: SeaFuture. Come far passare sotto il naso affari per la guerra in una fiera organizzata in uno dei luoghi più inquinati del territorio? Tingerla di retorica e di sostenibilità ambientale, magari mischiandole sapientemente in un’operazione di marketing accurata.
Premessa
Blue economy. Un modello per creare un eco-sistema sostenibile, una visione di economia circolare, proposto da Gunter Pauli nel libro The Blue Economy: 10 years, 100 Innovations. 100 Million Jobs. L’obiettivo non è semplicemente salvaguardare l’ambiente. Strutturare un sistema eco-nomico che elimini le emissioni climalteranti, azzeri l’impronta ecologica delle produzioni, dall’estrazione di materie al rifiuto. Per molti un’evoluzione di un sistema in perenne crisi, per altri un modello virtuoso. In ogni caso, che relazione abbia con una fiera mercato delle armi? Poco o nulla, al netto del mirabile marketing degli organizzatori di SeaFuture.
La fiera delle armi
La fiera, che si riproporrà nel giugno 2023 nell’Arsenale della Marina militare alla Spezia, si prepara a riproporre l’accezione cromatica che l’associa al mare, probabilmente inteso come semplice vettore strategico e militare. Basta scorrere la lista degli invitati, che non a caso sono marine militari: poco più di 27 e tutte logicamente allineate, salvo qualche eccezione. Ma si sa, quando c’è di mezzo il gas, si può chiudere un occhio se un invitato ha relazioni non propriamente allineate. Così gironzoleranno per gli stand ufficiali delle marine militari del Cile, Ecuador, Messico, U.S.A. ed Uruguay, Nuova Zelanda, Algeria, Cameroon, Congo, Ghana, Costa d’Avorio, Libia, Morocco e Tunisia, Azerbaijan, Bahrain, Bangladesh, Israele, Giappone, Oman, Pakistan Arabia Saudita e Singapore, per chiudere Belgio, Malta, Slovenia e Spagna.
Gli affari di guerra
In tempi di guerra, o se preferite in un modello aculturale ed economico che sta in piedi grazie ai conflitti, ça va sans dire, una fiera del genere non può che essere il fiore all’occhiello, per una classe dirigente che conosce due sole parole, intrecciate tra loro per l’appunto: guerra e business. Su 184 stand, fatta la tara delle presenze istituzionali (Camera di commercio, Polizia di Stato, Carabinieri, Marina militare, Guardia di Finanza, ecc.) la quasi totalità è rappresentata da aziende che operano nel settore militare: tecnologie per la comunicazione (militare), allestimenti (militari), sistemi radar (militare), cyber security (indovinate? con applicazioni militari), simulazione navale e aerea (warship & air warfare), armamenti che vanno da strumenti di tiro a munizionamento, passando per tecnologie missilistiche e, non ultimo, una vetrina per il mercato dell’usato italiano.
Ne sono stati un esempio le unità navali italiane dismesse ed offerte a paesi, alcuni dei non hanno molta dimestichezza con i diritti fondamentali dell’uomo (per non dire chiaramente dittatoriali o che violano i diritti umani), in barba ad una legge della Repubblica: la n°185/1990. C’è anche chi potrebbe obiettare che vedere pezzi dello Stato mercanteggiare con aziende del settore bellico, non sia precisamente un esempio di adempimento all’art.11 della Costituzione, ma c’è chi obietterebbe che si tratti di un riferimento ideologico. D’altronde, nel panorama del business qualche anno fa abbiamo assistito alla svendita di unità varate da Fincantieri e cedute alla marina egiziana, altro paese che, per ha poca dimestichezza con i diritti umani. E l’Italia ne ebbe una testimonianza piuttosto diretta.
Il fiore all’occhiello
Tra le mura centenarie dell’Arsenale, il quadro è già così a tinte fosche. Ma in attesa della devastante propaganda che esalterà l’eccellenza di un mercato bellico come sostenibile, green, blu, dual-use, senza svelare per quale arcano motivo una tecnologia debba nascere in ambiente militare per trovare un utilizzo civile, le questioni in piedi sono anche di altra natura. Ingenuità a parte, è utile comprendere dove e con quale coerenza si svolgerà SeaFuture, la creatura della crema della classe dirigente spezzina, che traguarda orizzonti di progresso e benessere per tutti noi (o loro, non è ben chiaro), millantando sostenibilità in un luogo che di sostenibile ha realmente ben poco.
La fiera dell’ipocrisia
La fiera avrà luogo, come detto, all’interno dell’Arsenale della Marina militare, zona militare, divieto d’accesso, sorveglianza armata. Quale miglior luogo per una kermesse affaristica del settore bellico? Un passo indietro. Al di là della pertinenza con il luogo, SeaFuture è organizzato da Italian Blue Growth S.r.l., la cui responsabile legale, Cristiana Pagni, tra le svariate cariche che ricopre (membro del CdA del Distretto Ligure delle Tecnologie Marine) è anche presidente della Sitep Italia S.p.A., una delle pochissime realtà private accreditate all’ingresso nell’area militare, perché ha la sua sede operativa a pochi metri dal comando della 1a Flotta navale, e naturalmente presente con il suo stand, con i suoi prodotti di comunicazione, navigazione e sicurezza per navigli militari.
Laddove si produceva…
I 184 stand saranno allestiti in due complessi all’incrocio tra via Piemonte e via Marco Polo: i fabbricati 61 e 62 sono costituiti da cinque capannoni, per complessivi 12.000 metri quadri, cinque edifici storici con più di un secolo di storia, in un’incantevole location: approdo dalla calata Calderai e dalla calata Nord delle Caldaie, ingresso comodo ed indipendente (Porta principale e porta Ospedale), parcheggio pubblico garantito (come passate edizioni). Fino a pochi anni or sono, quelle strutture erano officine operative, luoghi di lavoro: calderai, tubisti e costruzioni in ferro, veri e propri opifici, animati da lavoratori che tramandavano, di generazioni in generazione, sapere, consapevolezza, arte e mestiere.
Il famigerato Piano Brin, in quella struttura, prevedeva la convergenza delle officine costruzioni in ferro, accumulatori, impianti elettrici di bordo, motori allestimenti/arredamento, in un progetto stimato sui 23 milioni di euro, soldi dei contribuenti. Oggi, secondo fonti interne, gli ultimi 8 operai rimasti (sui quasi 200 dei tempi che furono in quei 12.000 metri quadri di officine ristrutturati) sarebbero stati “assorbiti” dal reparto manutenzione: calderai, tubisti e costruzioni in ferro, chiuse, e nessun’altra officina allestita al suo posto. Vengono alla mente i tanti annunci di assunzioni in Arsenale ed il suo rilancio occupazionale: teatrini a cui certamente non credono i registi della commedia, forse solo chi non è rimasto cieco e sordo.
Privatizzare i ricavi, socializzare le perdite
Passare da luoghi di produzione a spazi fieristici armieri a porte chiuse è certamente un bel salto di qualità, sotto il profilo occupazionale, sulla prospettiva produttiva e sulla riqualificazione di aree che, per i restanti 360 giorni dell’anno, restano a raccoglier polvere: laddove si produceva e si lavorava, in una filiera essenziale per la Marina militare, oggi si prospetta una struttura che verrà data in gestione, magari a qualche privato che, all’interno dell’area preclusa alla cittadinanza, sta facendo il suo business, in un regime di mercato che farebbe storcere il naso al più fervido liberista.
Certo è che per l’occasione occorrerà avere un minimo sindacale sulla decenza dell’Arsenale. C’è chi ha lamentato la mancanza di refrigerio, come dargli torto. Fin quando erano operaiacci sporchi e rudi poco importava se lavorassero a temperature cocenti e poco importa se, quei pochi lavorator* rimasti, d’inverno lavorano con giubbotto, sciarpe e guanti a causa dei termosifoni guasti. Quando si tratta di far sfilare i quadri militari di qualche paese alleato e far esporre i loro core business a qualche top manager, è bene da divisa e completi griffati non traspiri sudore. Naturalmente, una fiera in cui sostenibilità è la parola più abusata e svilita, poco importa se l’impatto per refrigerare, sotto il sole estivo, circa 12.000 metri quadri, vada esattamente nel senso opposto delle ipocrisie che utilizza.
Datemi marketing che solleverò il mondo
Se di ipocrisia si trattasse, quella più immediata è il mercato bellico, poi seguita dalla ricaduta economica sul territorio, ma quella sottotraccia che fa veramente inorridire è inerente alla presunta sostenibilità ambientale di una fiera che, concretamente ha poco, se non nulla, a che fare con i basilari concetti di blue economy, a cominciare dal luogo in cui si svolge, uno dei più inquinati… del globo terracqueo (fatemelo scrivere una volta anche a me). Un breve elenco per ricordare le perle più significative: una discarica di rifiuti tossici (Campo in ferro), oltre 100mila metri quadri di amianto, decine di unità navali in disarmo alle banchina senza protezioni per i loro eventuali sversamenti, un fondale con livelli di contaminazione di mercurio e zinco oltre i limite di legge, che rileva quale impatto hanno le attività portuali militare (versamenti di carburanti, sentine, emissioni atmosferiche inquinanti, ecc).
La pubblica opinione avrà contezza di SeaFuture dai comunicati stampa dell’organizzazione. Ma che figura ci si farebbe con le marine militari dell’Arabia Saudita o di Israele se una volta entrati si trovassero davanti relitti di sommergibili parcheggiati da anni, magari con qualche capriolo che li utilizza come trampoli per i loro tuffi? Ma non ci sarà alcun problema, I molti rottami galleggianti, ancorati alle banchine, verranno spostati, perché gli ospiti non si chiedono da quanti decenni dall’ultimo ammaina bandiera unità arrugginite tentino di sfidare l’affondamento, per poi ritornare al loro posto il 9 giugno, a fiera conclusa. Volete un esempio? Google Earth immortala nel febbraio 2022 la Maestrale (F570), fregata in disarmo dal 2015, proprio ormeggiata lungo la Calata Calderai. Oggi riposa serenamente alla Banchina Carboni, davanti alle case di Marola.
Tutto il mondo è paese
Last but not least. SeaFuture, con tutte le sue contraddizioni e criticità, rappresenta pienamente il mondo in cui viviamo: privatizzare i profitti, socializzare le perdite, in un contesto in cui pochi si arricchiscono a scapito del 99%. Tutto ciò con il supporto del ministero della Difesa, in particolare del Segretariato generale della difesa/Direzione nazionale degli armamenti, la co-organizzazione della Regione Liguria ed il patrocinio di istituzioni pubbliche comuni della Spezia, Lerici e Portovenere. Varrebbe la pena chiedere di conto a queste istituzioni che senso abbia il loro patrocinio e capire se (malauguratamente) implica anche una spesa (ulteriore) di soldi pubblici?
Workshop, conference, meeting, business-to-business a gogo, awards che sanciranno ulteriormente il legame tra industria militare ed alcune università, perché se ricerca si deve fare è per fare meglio la guerra. Naturalmente bonificare le aree militari dalle nocività presenti non se ne discute, di demilitarizzare le aree in disuso non se ne parla, di riorganizzare le aree miliari per contenere i costi di gestione e di operatività, neanche l’ombra. Organizzare, dentro le aree militari, una fiera per aziende private ad appannaggio di marine militari straniere è cosa buona e giusta, insomma, sa da fare, e noi comuni mortali cittadini dovremmo evitare di disturbare il conducente.