Resistenza in prosa come antidoto
Opinioni
William Domenichini  

Resistenza in prosa come antidoto

Resistenza in prosa, antidoto alla nuova desistenza. La meravigliosa esperienza della fiera Più libri più liberi porta con me tante emozioni, prima tra tutti il ritornare a Roma, dopo alcuni anni, una città che ho imparato ad amare strada per strada, meraviglia dopo meraviglia, sanpietrino dopo sanpietrino.

Questa volta per me Roma ha un significato ancora più forte ed intenso, legato alla prima uscita del mio libro. Prima di tutto stare a contatto con i ragazzi di Scampia, persone speciali con cui sono onorato di aver intrapreso questo percorso. Essere accanto ad un altro autore della Marotta&Cafiero, una persona splendida come Alfredo Bellini, di cui consiglio la lettura del suo meraviglioso libro sulla mobilità sostenibile. Infine l’aver incontrato tante persone, interessate ciò che ho scritto, vederle guardare il tuo libro con curiosità, scambiare opinioni sull’attualità dei valori della Resistenza e sentirsi chiedere una dedica. Durante la fiera un lettore mi ha posto una domanda, apparentemente banale, in realtà per nulla scontata: perché hai scritto un romanzo sulla Resistenza?

Avrei potuto rispondere in tanti modi: perché sono cresciuto con le storie che ho raccontato, per rendere omaggio ad un uomo che mi ha trasmesso l’idea di non accettare il nostro presente ciecamente, ma di mettersi sempre in discussione, con umiltà e con la voglia di cambiare le cose, perché queste storie sono le nostre radici, quelle più sane, e dimenticarle sarebbe un delitto. Ma quella domanda mi ha fatto tornare alla mente un articolo che lessi molto tempo fa, scritto ancora più tempo fa e che racchiude in sé la necessità di ricordare e di praticare, soprattutto oggi, le storie di ribellione del nostro paese, i valori che le hanno sostenute in mille avversità.

Vi invito a leggerlo, una riflessione di cui tutt* dovremmo tener conto. Resistenza in prosa come antidoto alla nuova desistenza.


Desistenza

di Piero Calamandrei, (Il Ponte. Anno II, n°10; 1946)

Quel miracoloso soprassalto dello spirito che si è prodotto, quando ogni speranza pareva perduta, in tutti i popoli europei agonizzanti sotto il giogo della tirannia interna ed esterna, ha ormai ed avrà nella storia del mondo un nome: “resistenza”. Sotto la morsa del dolore o sotto lo scudiscio della vergogna, gli immemori, gli indifferenti, i rassegnati hanno ritrovata dentro di sé, insospettata, una lucida chiaroveggenza: si sono accorti della coscienza, si sono ricordati della libertà. Prima che schifo della fazione interna, prima che insurrezione armata contro lo straniero, questo improvviso sussulto morale è stato la ribellione di ciascuno contro la propria cieca e dissennata assenza: sete di verità e di presenza, ritorno alla ragione, all’intelligenza, al senso di responsabilità. La resistenza è stata, nei migliori, riacquisto della fede nell’uomo e in quei valori razionali e morali coi quali l’uomo si è reso capace nei millenni di dominare la stolta crudeltà della belva che sta in agguato dentro di lui.

Si è scoperto così che il fascismo non era un flagello piombato dal cielo sulla moltitudine innocente, ma una tabe spirituale lungamente maturata nell’interno di tutta una società, diventata incapace, come un organismo esausto che non riesce più a reagire contro la virulenza dell’infezione, di indignarsi e di insorgere contro la bestiale follia dei pochi. Questo generale abbassamento dei valori spirituali da cui son nate in quest’ultimo ventennio tutte le sciagure d’Europa, merita di avere anch’esso il suo nome clinico, che lo isoli e lo collochi nella storia, come il necessario opposto dialettico della resistenza: “desistenza”. Di questa malattia profonda di cui tutti siamo stati infetti, il fascismo non è stato che un sintomo acuto: e la resistenza è stata la crisi benefica che ci ha guariti, col ferro e col fuoco, da questo universale deperimento dello spirito. 

Così ci illudevamo due anni fa, alla vigilia della liberazione. Ma oggi ci sembra di avvertire d’intorno a noi e dentro di noi i sintomi di un nuovo disfacimento. Ciò che ci turba non è il veder circolare di nuovo per le piazze queste facce note: il pericolo non è lì; non saranno i vecchi fascisti che rifaranno il fascismo. Che tornino in libertà i torturatori e i collaborazionisti e i razziatori, può essere una incresciosa necessità di pacificazione che non cancella il disgusto: talvolta il perdono è una forma superiore di disprezzo.

No, il pericolo non è in loro: è negli altri, è in noi: in questa facilità di oblio, in questo rifiuto di trarre le conseguenze logiche della esperienza sofferta, in questo riattaccarsi con pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato. Oggi le persone benpensanti, questa classe intelligente così sprovvista di intelligenza, cambiano discorso infastidite quando sentono parlar di antifascismo: e se qualcuno ricorda che i tedeschi non erano agnelli, fanno una smorfia di tedio, come a sentir vecchi motivi di propaganda a cui nessuno più crede.

I partigiani? Una forma di banditismo. I comitati di liberazione? Un trucco dell’esarchia, i processi dei generali collaborazionisti si risolvono in trionfi degli imputati. I grandi giornali si affrettano a riaprire le terze pagine alle grandi firme, care ai lettori borghesi: dieci anni fa celebravano l’impero e la guerra a fianco della grande alleata, oggi scrivono collo stesso stile requisitorie contro la pace spietata; e il pubblico si compiace di questi elzeviri ritrovati e non si accorge che questa pace è la conseguenza di quella guerra. Finita e dimenticata la resistenza, tornano di moda gli “scrittori della desistenza”: e tra poco reclameranno a buon diritto cattedre ed accademie.

Sono questi i segni dell’antica malattia. È nei migliori, di fronte a questo rigurgito, rinasce il disgusto: la sfiducia nella libertà, il desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti. Questo il pericoloso stato d’animo che ognuno di noi deve sorvegliare e combattere, prima che negli altri, in se stesso: se io mi sorprendo a dubitare che i morti siano morti invano, che gli ideali per cui son morti fossero stolte illusioni, io porto con questo dubbio il mio contributo alla rinascita del fascismo.

Dopo la breve epopea della resistenza eroica, sono ora cominciati, per chi non vuole che il mondo si sprofondi nella palude, i lunghi decenni penosi ed ingloriosi della resistenza in prosa. Ognuno di noi può, colla sua oscura resistenza individuale, portare un contributo alla salvezza del mondo: oppure, colla sua sconfortata desistenza, esser complice di una ricaduta che, questa volta, non potrebbe non esser mortale.


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L'ultimo arrivato!

Questo bellissimo saggio ci racconta come la cultura di guerra e di morte genera gli stessi mostri in tutto il Paese: pessimismo, obbedienza, passività, senso di sconfitta, conformismo, opportunismo, clientelismo. Figli di un dio minore, vittime e colpevoli allo stesso tempo dei propri mali. Politici e rappresentanti istituzionali fotocopia. Iene e sciacalli ai banchetti delle opere pubbliche e gattopardi perché cambi tutto purché non cambi nulla.

Lo scenario che ci delinea e ci offre queste pagine che seguiranno è certamente doloroso, tragico, inquietante, ma in questo suo coraggioso e generoso atto di denuncia traspare sempre lo smisurato amore per La Spezia, per il suo Golfo, il suo Mare. Pagine e immagini che feriscono il cuore ma in cui respiriamo ancora speranza ed utopia. Che un’altra città sia davvero ancora possibile, viva, libera, aperta, felice. Un laboratorio di Pace.

Antonio Mazzeo

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